Un nuovo inizio

Cambio d’abito, cambio – un po’ – di contenuti. Non c’è Duesenzatre (per non parlare del cane) si rianima. Sono successe un po’ di cose, nel frattempo. Nulla di diverso dalla vita. Una voglia di dare un volto più organizzato a quello che faccio e che penso, ed eccoci qui, di nuovo.

Con il mio lavoro principale, che è amore e odio

Con il mio lavoro secondario, che è soddisfazione ma di soddisfazione non si campa (per ora)

Con il mio lavoro inventato, che è divertimento puro, è creare con le mani, è sporcarsi di colla e zucchero e farina, è incontrare donne e mamme e dividere un pezzo di strada

Con la mia famiglia, sempre quella. Le mie passioni, qualcuna in più. E i sogni ad occhi aperti, che sono linfa vitale

Come il vento di oggi

Oggi la Gnoma ha un po’ di febbre causa vaccini. Un po’ si lamenta e un po’ dorme, e mi fa tanta tenerezza.

Oggi ilCaneha rotto le scatole per farsi portare al parco, e ora dorme.

Oggi il vento è fresco e il sole è caldo.

Oggi mi viene da piangere e poi da ridere, da pensare e creare e poi da guardare 10 puntate di fila di Honey Boo Boo o Io e la mia ossessione.

Oggi sono un po’ di giorni che sono pessimista. Che uno tenderebbe a raccontare i fatti, gli eventi, e inevec a me le cose succedono intorno, e pure tante e anche belle, ma il barometro dell’umore fa un’altra strada e si infogna nei suoi buchi neri. Mi sento parecchio vuoto addosso. La verità è che mentre il resto dle mondo, a quanto pare, cerca di prolungare la maternità il più possibile, scippando setimane prima e dopo grazie a medici compiacenti, io che sono a casa, senza contratto ma con ancora un anno e qualcosa di disoccupazione pagata – quindi non bisogno di soldi – , io che nel frattempo ho scritto e pubblicato un libro e ora parto con la promozione ed è una bella cosa, vorrei solo rientrare nel vortice delle giornate scandite dalle notizie, dai turni, dalle riunioni, dalle immagini e dalle scariche di adrenalina. Anche dall’insofferenza, dagli scazzi, dalla non-voglia, dal sonno, le luci stranianti, da quando non c’è nemmeno tempo per andare in bagno o mangiare.La voglia precisa di ripartire, e non poterlo fare. Mi sto occupando di qualcosa di più grande, lo so. La Vita. Ma io voglio anche il Mondo. (Perché mi sento in stallo, e non è bello così)

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Tornati

Ci voleva la vacanza, la vacanza per mancare a un po’ di doveri. Ci siamo prima imbozzolati nel piccolo giardino della Casalmare, perché la Gnoma è troppo piccina per sole e sabbia. Noi e Unamoredicognata, nella stessa casa piccina, a dividerci cene sotto il portico e colazioni al bar, con tutta calma. E poi gli aperitivi quando si fa l’ora giusta per Lei (e per ilCane, che in spiaggia può andare solo dopo le 18…o 19? Fa niente, lui alle 18 era lì in pole a fare il bagno di acqua e di sabbia, col sole in declino).

Poi siamo andati sui monti, quelli della nostra (mia e di Lui) infanzia passata a sbuffare appresso ai genitori nelle lunghe passeggiate. Ci siamo sbizzarriti sui (pochi, ma buoni) sentieri carrozz(in)abili, che tanto abbiamo un all-terrain che va sullo sterrato che è una favola. Abbiamo lasciato i Nonni a fare i nonni un bel po’ – io ho letto una cosa come duemila pagine di libri in una settimana, senza contare le pause-rivista. Abbiamo conosciuto (o ri-conosciuto) persone, e tante pance abitate, e tanti piccoli uomini. Perché la montagna d’estate è abitata essenzialmente da bambini o bambini-to-be.

E siamo tornati. Una settimana fa, a dire il vero, ma Lui è riuscito a stazionare un altro po’ a casa e così, quando non eravamo travolti da lavatrici rotanti e cumuli di cose-da.rimettere-a-posto, ci siamo lasciati prendere dal clima ancora sospeso, pranzi in giro, niente orari, sonnellini, cene, giri.

Oggi abbiamo ripreso la routine. Io aspetto di avere notizie dal mio lavoro, che amo e che temo e che spero. La Gnoma sta imparando a stare seduta da sola, e ride di cuore quando guarda ilCane. Si prende i piedi, si sfila i calzini, fa un sacco di cose in più. E’ lunga lunga e magretta, non sta mai ferma se non (e non sempre) nel sonno. IlCane è sempre lo stesso, nonostante gli innumerevoli bagni nei torrenti ghiacciati.

E io&lei ormai siamo una combriccola

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there’s love if you want it (don’t sound like no sonnet)

Tra una partenza e l’altra, tra il mare che non abbiamo visto e la montagna che vivremo un po’ a metà misura di Gnoma. Dicevo: siamo stati alla casetta piccolina in Canadà al mare in compagnia di unamoredicognata (che poi sarebbe la sorella del Socio), e ora siamo di nuovo al campo base a cambiare i bagagli, lasciare i costumi e prendere i calzettoni per imboccare la via dei monti.

E oggi in macchina ci pensavo, a quanto siamo cambiati. E a quanto il desiderio di questa vita a tre (pernonparlaredelcane) sia nato in contemporanea a noi due. Cioè, in astratto no. Io i cani e i pupi li ho sempre visti come punto fermo della mia vita futura, che senza cuccioli di qualsiasi specie per me è molto meno vita. (Poi ora che lei si rotolicchia sul lettone strapazzando la sua nuova Sophie la Girafe, e il peloso se ne sta auspicabilmente stremato dal caldo dietro al divano, la cosa ha ancora più senso).

Ma in concreto, in concreto dicevo, è stato l’incontro con lui (since 16-2-2007) a farmi dire: occhei, si può fare, andate e moltiplicatevi. Ci siamo sposati che era giugno, due anni fa. Che poi io da bambina mi ero sempre vista “sposata a 25 anni”, sembrandomi i 25 anni una distanza siderale della vita. E beh, nonostante tutto così è andata. E tra qualche mese ne compio 28 che mi sembra tipo la vecchiaia, il declino, la (miodio) maturità e ho maritocanefiglia (rigorosamente in ordine di apparizione) e mi rendo conto che la maggior parte di noi a quest’età sta ancora cercando se stessa e allora penso alla fortuna immensa di aver trovato. Non solo Lui, il Socio, che poi ha portato alle creturine bipedi e quadrupedi che ci girano per casa, ma soprattutto me e quello che voglio, nonostante le mie paure, innamoramenti repentini, paranoie, ansie e depressioni.

L’amore c’è, se lo vuoi, non suona come un sonetto. Mi fermo e penso che noi ce l’abbiamo. Senza sonetto ma con tutta la poesia. Mi devo fermare per capirlo. Mi devo trovare sulla spiaggia in silenzio, con una birra e un cane che dorme e una bimba che dorme e lui che non mi guarda. E la spiaggia quasi vuota perché è mercoledì e sono le 7 di sera. E poi mi devo ricordare di ricordarmelo più spesso. Di non tenerlo sottotraccia.

Ora è di là che videochiama i suoi per fargli vedere la Gnoma che gorgheggia (mentre scrivevo questo post abbiamo avuto nell’ordine: piantarello-poppata-invasione di zanzare-rientro del Socio dal lavoro-cambiamento stanza con portatile rovente annesso). E io che guardando le foto degli altri mi rendo conto che dovrei guardarlo di più da fuori. Come sto imparando piano a fare con me stessa.

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Gnoma dorme. La casa è in ordine. Il Socio è andato a lavorare, ultimo giorno prima di lunghe vacanza core a core. La casa è in ordine (l’ho già detto? ah sì? è perché ieri sera ci sono stati a mangiare e suonare 3 ragazzoni dal robusto appetito e io sono andata a letto dicendo “domani mattina non voglio trovare nulla in giro” e stamattina non c’è nulla in giro). Il Peloso è già uscito. La valigiona da spedire in montagna è stata spedita. Domani si festeggia. Io sto bene che è dir poco.

Non è successo nulla, nulla di particolare. Non mi sento carica di energie, nè esaltata, e nemmeno con quella sottile voglia d’Altro che spesso mi contagia. Forse sarebbe un buon momento per riprendere in mano quella roba sparsa e disordinata che avevo iniziato a scrivere e mettere qualche connessione logica. Che poi l’altro giorno ho conosciuto una persona che me ne ricordava terribilmente un’altra, non sulle prime ma mentre ci parlavo e mi ascoltava con espressione intenta e attenta. E poi mi ha detto “quest’estate torno a xy dalla mia famiglia” e ho tipo pensato “ma che davvero?” e poi mi è scivolato tutto via però mi ha dato un’ispirazione concreta.

Ho letto tanti blog in questi giorni, chiedendomi ancora una volta quale sia il segreto che fa avere tanto seguito, quali siano i temi che chiamano, le frasi che premiano, le vite che esaltano.

Beh, la mia no. Ho un marito amato, e una casa normale, e un cane, e una figlia voluta e arrivata anche con una certa facilità. Ho (ho avuto? avrò?) un lavoro che amo alla follia ma che, nonostante parli di televisione è decisamente dietro le quinte. Non rientro nella categoria delle mamme-con-problemi, delle singol-guru, e per quanto mi piacciano vestitini e scarpine non sarò mai (diomio, no!) una fescion-bloggher. Non ho manualità (ho fatto due-tre-quattro cosine prima della nascita di Matilde, ma poi mi stufo in fretta). Cucino discretamente, ma solo perché trovo ricette furrrrrbe (tipo quella dei brownies che ho fatto ieri e che se mi va più tardi vi spaccio).

Ho scritto e pubblicato 5 saggi su argomenti così diversi che non sono esperta di niente fino in fondo, perché non sono una ricercatrice ma una divulgatrice. Perché credo che il mio mestiere non sia sapere, ma informarsi bene per poi informare gli altri.

Sono io, e sto bene nella mia pelle come è difficile che mi accada e come da un paio d’anni mi succede più spesso. Che forse dovrei abituarmi a stare bene, perché da quando io e il Socio abbiamo messo su questa casina e l’abbiamo riempita di cuccioli (viene in mente anche a voi Rudy che canta “che importa se sono più di cento, ognuno con noi resterà, in ogni momento nell’allevamento felice ciascun saràààà”) gli spazi di inquietudine sono relegati a pochi, sani momenti quando sogno dietro a frasi di canzoni,
dietro a libri e ad aquiloni, dietro a ciò che non sarà. Che mi fanno anche bene, perché non è che si può dimenticare una vita passata ad inseguire un orizzonte inafferrabile solo perché alla fine (e nemmeno troppo, visto come abbiamo bruciato le tappe) la felicità è qui.

Poi guardo lei e le auguro un pizzico della mia vita, e grandi imprese. Come la frase che ho voluto ad ogni costo sul muro sopra al suo lettino.

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Un anno fa

Un anno fa eravamo appena stati al concerto dei Beach Boys, a Capannelle, ed era stato davvero bellissimo. Folla il giusto, vicini al palco, a due metri dal bancone del bar, infiltrati in un gruppo in bermuda e camicie hawaiane. Avevamo cantato fino a sgolarci, ballato fino a sfinirci, tutte le 50 canzoni cantate (che poi a fare un calcolo ci hanno fatto pagare 1 euro a canzone, come su iTunes ma molto meglio).

Un anno fa eravamo andati a festeggiare il compleanno di un’amica a base di mojito e zanzare sul Tevere, che è sempre bello e fa un po’ Louisiana – anche con l’assenza dei coccodrilli. Eravamo andati in moto, me lo ricordo, e il fresco della sera si era fatto sentire bene nonostante il casco, prima di tornare nel caldo umido come chi rimane a terra.Un anno fa avevo fatto pace da poco con qualche tormento del sì, no, forse, magari non ora, e poi come faremo? e mi ero risposta che dovevo mettere da parte le ansie, sia in un senso che nell’altro, e godermi quello che avevo hic et nunc.Un anno fa aspettavamo con ansia e una staffetta su Twitter #frontedelparto la nascita di una giovane ritardataria. Un anno fa, ora più ora meno, mi era arrivata la notizia che la giovane in questione aveva deciso di affacciarsi al mondo in un luglio che mi sembrava meno torrido giusto perché almeno 8 ore al giorno le passavo con l’aria condizionata, l amente occupata e una buona compagnia.

Alla vista del messaggio avevo svegliato il Socio, gli avevo detto “è nata!” tipo alle 4 del mattino, e lui aveva detto “bello!” ed era crollato di nuovo. Al mattino l’aveva scordato. Io no, però, e mi ero detta: sia mai che porta…no, non bene, sia mai, diciamo, che voglia dire qualcosa? E avevo preso uno di quei minitest a strisciolina che su ebay te li vendono a pacchi, che magari non saranno fichi e rifiniti come quelli che si accendono di luci strobo e musica dance per dirti il risultato, ma funzionano tale e quale: immergi nella pipì, aspetti 3 minuti, una striscia negativo, due strisce positivo.

L’avevo fatto e poi ero andata a svegliare Lui prima di vedere il risultato, e gli avevo detto “vuoi venire a controllare con me? tanto volevo solo togliermi il pensiero, sarà bianco candido, guarda”.

E le strisce erano due

Let the sunshine in

Ci sono giorni in cui mediti un post. Ci sono post che mediti per giorni, per non risultare troppo lugubre. Ci sono (stati) giorni di angoscia che ha inghiottito tutto come un vortice nero.

Che "i problemi sono altri" (sì, ma questi sono i miei problemi). Che "marito, figlia, casa, è tutto così perfetto" (ma allora perché l’ansia che mi stritola e i pianti a ogni ora, e la voglia solo di restare a letto tutto il giorno?). Che "non ti fasciare la testa" (ma come faccio ad aspettare il fluire degli eventi?). Che "intanto hai pubblicato un libro, oltre ad avere un bambino, ti sembra poco?" (Ma io…)

Ve la faccio breve: angosce lavorative. La mia situazione: precaria di lusso. Ma precaria. Cioè: lavoro adorato (da cui mi sembra anche di essere ricambiata). Contratti a termine senza soluzione di continuità (a parte un mesetto stra-goduto per il viaggio di nozze, perché la cretina stacanovista che è in me ha organizzato matrimonio e viaggio di nozze in modo da farli cadere in una pausa contrattuale). Poi la decisione di avere un figlio, con un contratto che già sapevo non sarebbe stato rinnovato a breve. Da novembre sono in quella che preferisco chiamare "maternità anticipata", che è stata in realtà "sono incinta, lavorerei potendo fino a rottura delle acque compresa, ma questo contratto scade a breve, che si fa?" Con risposta "tante care cose, ci sentiamo dopo il parto, quando vorrai rientrare vedremo".

(Per fortuna supportata da un assegno mensile di disoccupazione, assicurazione sanitaria e zero problemi economici. Non da scialare, ma zero problemi).

E quindi, all’inizio me la sono presa. Poi mi sono concentrata sulla Gnoma in arrivo. Poi sui suoi primi mesi. Ora lei ne ha compiuti tre, e io scalpito per riprendere il mio posto, senza sapere se mi rivorranno. Si avvicina settembre, tempo di rimettersi in gioco. E ancora non avevo avuto segnali, tanto che pensavo di andarmi ad accampare da quelle parti. Agosto più che al relax mi spinge ai bilanci, e mi sono fatta una decina di giorni in un vortice di pessimismo cupo e violento. Paura di essere stata messa da parte. D essere stata scema o naïf o quellochevipare pensando di poter fare un figlio da precaria senza essere scavalcata da colleghi altrettanto bravi, altrettanto giovani e diversamente sessuati (maschi, diciamo).

Oggi no. Oggi c’è il sole. È timido e forse non durerà, forse mi farò riassalire dall’ansia. Ma so che c’è qualcuno che mi pensa, e che qual l’amore viscerale e disperato per il mio lavoro è in buona parte ricambiato. Magari non sarà a brevissimo, il che sarebbe anche giusto visto che da una parte mi piacerebbe stare a casa fino ai 6 mesi della Gnoma. Ma io, come le migliori eroine tragiche, so aspettare. Con la consapevolezza che torneremo a lottare insieme con le sveglie all’alba, i rientri a tarda notte, i weekend inesistenti (uno su quattro), i miei meravigliosi e adorati colleghi. Solo per l’ebbrezza di dare una Notizia.

La prossima volta me la lego addosso

Ci ho pensato un bel po’ – dieci ore più o meno – sull’opportunità di scrivere questo post.

Non vorrei offendere nessuno, e so che potrei scrivendo quello che penso. Ma ho ancora le mani che prudono da ieri sera, e quindi meglio sfogarsi qui.

Dicevo: 10 ore e una lunga telefonata di lamentela con un’amica anche lei madre coraggio di una quasi coetanea della Gnoma. Una telefonata che mi ha fatto capire che a)sono normale b)sono stata brava c)ho almeno il diritto di sfogarmi.

Dicevo: cena di famiglia, ieri sera, con la Gnoma che se la sono passata manco fosse un pacco postale. Al grido di “ma a me non me lo fai un sorriso?” è stata sollevata, girata, rigirata, cullata, dondolata. Ogni pizzico di zanzara sulla sua pelle è stato esaminato. “Ma perché non le metti lo spray?” “Perché fa male” “Ma c’è quello adatto ai bambini!” “eh, peccato che ci sia scritto non adatto sotto i 3 anni”

E l’acqua? No, niente acqua. Tra quanto mangia? Quando vuole lei. Ah, ma ai miei tempi…(completate voi: si dava l’acqua/la camomilla/la tisana/il ciuccio; a 3 mesi si distanziavano le poppate – che poi per inciso la Gnoma se le distanzia da sola le poppate, dorme tutta la notte da quando aveva un giorno di vita, e se ogni tanto non “tiene” le 3 ore e mezza beh, credo che ci possa stare)

I concetti di allattamento esclusivo a richiesta mi sa che non sono brava io a comunicarli

Io, per non venire fuori come un’anti-progresso che fa divorare la pupa dalle zanzare, le nega l’acqua per crudeltà e la cresce senza orari e senza ciuccio, l’ho affidata al padre e sono scappata a chiacchierare con Miacognata all’altro capo del giardino.

Dopo un’ora nemmeno Matilde frignava. E io ho provato a metterla un po’ a nanna ma niente. Anche perché non è facile calmare una neonata piagnucolante con tante facce diverse che si affacciano sulla carrozzina a fare vocette chiedendo poverina che cos’ha (e che alla risposta “è un po’ stranita, troppa agitazione stasera” ti dicono pure “eh, sì poverina” -ancora! e certo, perché sono stata io a sballottarla per un’ora, no?)

Ho chiesto aiuto al padre che l’ha prontamente sbolognata alla nonna, che ovviamente l’ha fatta addormentare in braccio tra grida di stupore per la magia. Peccato che la Gnoma in condizioni normali si addormenti nel suo lettino senza fiatare. E che solo in certi casi faccia “i capricci” per dormire in braccio.

***

Mi sono sentita tanto male ieri sera, ma non si è visto. Sono felice che non si sia visto. Ma a fine serata ho voluto tenermi addosso per un po’ la Gnoma addormentata, un piacere che tanto spesso mi nego perché io sono quella che deve fare le cose per bene. Perché per la vita mia e la sua il regalo più bello che posso farle è l’autonomia – sì, anche a tre mesi. La sicurezza di sapere che la mamma c’è, è pronta a correre in aiuto, ma che del mondo intorno non bisogna avere paura. E ho capito che sono molto più chioccia di quanto non voglia pensare. O forse più animale. Tanto più animale. La Gnoma è mia, e la prossima volta la porto nella fascia, così per prenderla prima dovete mettere le mani addosso a me. Tiè.

Per il the (freddo) di luglio

Inizio con questa ricetta perché. E’ facilissima. Si può fare con i lime ma anche con qualsiasi altro agrume, quindi è perfetta in estate, inverno e in ogni stagione intermedia (io ad esempio sto già pensando alla versione invernale al mandarino. O a quella con l’arancia, cannella e gocce di cioccolato fondente). Non serve attrezzatura di nessun tipo, e i  biscotti non vanno stesi, solo schiaffati a cucchiaiate sulla carta forno. Meglio di così! E poi è stata la prima cucina non di sopravvivenza in cui mi sono cimentata da quando è nata Matilde ed è stato bello.

Lemon drops al lime

  • 2 uova
  • 1 tazza di zucchero
  • scorza grattugiata di due lime
  • succo di 2 lime
  • 1 tazza e 1/3 di farina
  • 1 cucchiaino di lievito

per la glassa

  • 125 gr. zucchero a velo
  • scorza e succo di 1 lime

Sbattete le uova in una ciotola finché non diventano schiumose. Aggiungete lo zucchero, il succo e la scorza dei lime. Setacciate insieme lievito e farina e aggiungeteli al composto, continuando a mescolare bene con la frusta.

Disponete con un cucchiaino il composto su una teglia foderata con la carta forno , in tante palline distanziate di alcuni centimetri. Infornate a 160 per 10-15 minuti. Fate raffreddare e ricoprite con la glassa ottenuta mescolando lo zucchero a velo con la scorza e il succo del lime.

Il rock è morto, viva il rock

Quindi alla fine ci siamo andati. Il posto, un vero postaccio, ma in senso buono. Per la strada che abbiamo fatto per arrivare (che dai, su, la Braccianense non è proprio il massimo della vita). Per la location in sè: il bivio tra la Braccianense km millemila e l’Anguillarese. Cioè, dico: viene a Roma un mostro sacro del rock e voi me lo fate suonare al bivio tra Bracciano e Anguillara. Poi il parcheggio, che era un déjà vu dei mille parcheggi di posti sperduti dove siamo andati a sentire qualche gruppo. E poi la sala, ovviamente al chiuso, perché mica è luglio, no? E una distesa di tavoli dove si è mangiato parecchio male e si è bevuta una birra molto buona (più d’una, in realtà). Nessuno spazio davanti al palco, ci siamo stretti al bancone per poter dire “oh, ero a due metri da LUI”.

Perché LUI, quelgranficodiEricBurdon, è un rocker settantenne+ (mi sembra ne abbia 72, fate voi) con una voce ancora assolutamente inconfondibile, gli occhiali da sole sul palco, un improbabile vestito lucido e un mega foulard a mascherare la pancia da bevitore incallito. 

Perché LUI non è come Mick Jagger (che resta il mio sogno erotico di sempre, e sempre lo resterà, punto). Che si fa 4 ore di allenamento al giorno e probabilmente mangia vegan e fa yoga&pilates e credo abbia anche smesso di fumare. Eric dietro il palco secondo me stava con una boccia di qualcosa a brindare col resto del gruppo come ai vecchi tempi.

E credo che altre parole non servano, se non le sue

(ecco, il video nemmeno è completo perché la memoria dell’iPhone ha deciso di mollarmi sul più bello, ma facciamocelo bastare)

Non credo gli perdonerò il fatto di aver mancato tre delle canzoni più belle secondo me. Però il bis in cui abbiamo tutti cantato agitando le braccia “It’s my life and I do what I want” è stato fuori dal tempo e dallo spazio. Come la chiacchierata con due sessantenni di Bracciano con la maglietta dei Led Zeppelin sul fatto che, signoramia, il rock è durato dal ’63 al ’73 e poi più nulla. 

Poi siamo tornati a casa. La nana, in custodia ai nonni, aveva dormito tutto il tempo. Il latte, tirato, surgelato, scongelato, che aspettava in frigo per la prova biberon, inutilizzato. Ho provato a proporre al socio un cappuccino, stamattina, ma non ci è cascato